Quando viaggiare è una forma di incontro

Mi piace fermarmi a riflettere sul significato del viaggio e scoprirne interpretazioni sempre diverse, insolite, affascinanti. L’assunto di base è che si parte sempre con l’idea e l’entusiasmo di conoscere posti nuovi, preferibilmente in luoghi lontani, terribilmente affascinanti, scordandosi, però, spesso di una variabile interessante ,a tratti determinante: l’incontro. “Nessuno viaggiar ebbe più se non credesse ancora di incontrare qualcosa di diverso da sé. Se non confidasse in un po’ di meraviglia”, le parole di Franco Riva, autore de “La filosofia del Viaggio”  si allontanano dall’esperienza collaudatissima degli all inclusive, per aprirsi a dimensioni nuove, tutte da reinventare. Dal viaggio ci si aspetta tanto, forse tutto quello che potrebbe in qualche modo provare a cambiare la nostra vita, la routine che tanto ci annulla. Si viaggia per conoscere e lo si inizia a fare seduti davanti ad una cartina geografica o “masticando” pagine di guide turistiche e di appunti, per non arrivare impreparati alla meta. Si esplorano dettagli materiali e pratici, ma anche spirituali ed esistenziali, soffici e impalpabili. Ci si pone in una dimensione di attesa e di crescita individuale e culturale. “Il viaggio era… com’è tipico anche ai nostri giorni di ogni viaggio fatto con intelligenza, una scuola di resistenza, di stupefazione, quasi un’ascesi, un mezzo per perdere i propri pregiudizi, mettendoli in contatto con quelli dello straniero”.(M.Yourcenar). Facilitare l’incontro con qualcosa che non ci appartiene, significa abbandonare ogni certezza, ogni schema mentale, ogni traccia di cultura tradizionale, per avvicinarsi all’ignoto. “Chi non viaggia non conosce il valore degli uomini” sosteneva Ibn Battuta, “il Marco Polo arabo in trent’anni percorse più di 117mila chilometri e, per primo, raccontò il sentimento del passaggio da un mondo a un altro; la sensazione, un misto di smarrimento e sorpresa nell’incontrare un altrove sconosciuto”.

egittoIl più delle volte il viaggio diventa quasi una sorta di esperienza bulimica: fagocitare quante più tracce possibili, strade, paesi, volti, suoni, colori che entrano in contatto con la nostra identità e la modificano. Viaggiare per conquistare città dopo città, per “consumare il mondo” avanti e indietro, usufruendo di mezzi e tecnologie sempre nuove, rapide, inafferrabili. Alla geografia dell’universo che comunemente conosciamo tutti, sarebbe utile sostituire, invece, quella dell’anima, riempire valigia o zaino di attenzioni, di vagabonde emozioni, di delicate confidenze e di innocenza pura. “In viaggio, la cosa migliore è perdersi. Quando ci si smarrisce, i progetti lasciano il posto alle sorprese, ed è allora, ma solamente allora, che il viaggio comincia”(N.Bouvier). Il viaggio  è conquista, ma è soprattutto rischio, fatica, attesa e apertura verso qualcosa che ci attrae e ci respinge, che ci illudiamo di conoscere e che invece non ci garantisce nulla. Non si viaggia con la presunzione di sapere già tutto, non ci si mette in cammino per arrivare ad interpretare ciò che non ci appartiene, perchè muoversi, fare esperienza, presuppone un duplice confronto tra quello che rappresentano gli altri e quello che siamo noi per loro. E’, quindi, la prospettiva interpretativa che va rivista. Non sono io il soggetto dell’incontro, ma ne divento l’oggetto, una volta varcati i confini del certo. Così la frase di Battuta viene colta nel suo significato più profondo:” l’unico incontro che abbiamo è quello con noi stessi.E il valore che dobbiamo comprendere è semplicemente il nostro”. Perchè come saggiamente sostiene Claudio Magris: “viaggiare è una scuola di umiltà, fa toccare con mano i limiti della propria comprensione, la precarietà degli schemi e degli strumenti con cui una persona o una cultura presumono di capire o giudicano un’altra”. Buon viaggio….